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Trascrizione integrale

della postfazione critica

di

Roberto Caracci
allo

"Spettacolo Ionesco"

del 28/01/2012

presso la sede della

Compagnia del the

L'assurdo è l'ab-surdum, il dissonante, ciò che si stacca dal suono udibile. In Ionesco è fondamentale la dissonanza, ossia un suono, una parola, frase, o voce diversa da quella che è attesa. L'imprevisto, l'inaudito, la sorpresa. Ecco perché si parla qui anche di contrappunto: ad ogni punto se ne contrappone un altro, ad ogni determinatio succede una negatio, una deviazione e una contraddizione. E questo ritmo spezzato fa musica, musica contrappuntistica e sincopata.

Ionesco è il re del dialogo, avanza dialetticamente, in un contrappunto che anziché far procedere il discorso lo blocca, lo fa ristagnare, lo immobilizza di uno schema automatico, ripetitivo, circolare. Si potrebbe parlare di una dialettica aperta, così aperta che è senza sintesi, anti-hegeliana, senza soluzione nè continuazione nè crescita. La parola e la frase ricadono nello stereotipo, il parlare anziché produrre significati ristagna nel significante. Si va verso la fossilizzazione della frase, che sembra avere un suo dinamismo, ma è il dinamismo del moto perpetuo, come quello di certi giocattoli a molla.

Difatti i protagonisti sembrano spesso parlare e agire come spinti da una molla, marionettisticamente: e questa tendenza alla fissazione, all'immobilismo, all'automatismo della marionetta ricorda il concetto di comicità in Bergson e anche in Pirandello, dove è proprio la meccanicità dell'organico, del corpo vivente, quella che blocca il flusso della vita e del divenire, a suscitare il riso, la comicità grottesca o tragica. Qui infatti domina la ripetizione, il tornare al punto di partenza, la pulsione che non avendo un serio obiettivo a parte il sopravvivere- ricade su se stessa, e continua in una infernale eternità a riprodursi. La vita borghese si riproduce nel grottesco del non senso. Proprio perché la vita non ha senso, o gli uomini non riescono a trovarlo e la vivono lo stesso, proprio perché l'istinto di conservazione e perpetuazione della specie sopravvive alla fine dello scopo, i personaggi di Ionesco appaiono dischi stonati, campane sorde (ab-surde) chitarre scordate, magnetofoni che ripetono sempre la stessa solfa.

Il tragico sta nella mancanza di senso, il comico nel continuare tenacemente a vivere malgrado ciò. Il tragicomico dunque sta anche nelle ragioni che il sopravvivere detta oltre la mancanza di senso. Io penso l'assurdo — sembrano dire i personaggi di Ionesco — dunque vivo. La ciclicità e la ripetizione scaturiscono da questa eterna lotta tra non senso e istinto di sopravvivenza. Poi ovviamente, se si lascia la vita scorrere in un alveo o in un labirinto di alvei che non hanno direzione, ecco che si va incontro a due impasse: da una parte l'ipertrofia o proliferazione delle cose, ossia il loro crescere indipendentemente da noi, che non sappiamo nè comprenderle nè capirle nè tanto meno smaltirle — come merce che non siamo in grado a riciclare; dall'altro l'atrofia dell'io, che davanti all'ipertrofia del mondo esteriore rende sempre più sottile, minimale, e lillipuziano il nostro mondo interiore, la nostra libertà di scelta e la nostra volontà.

Resta, della volontà, solo la volontà di vivere, che però si muove a vuoto, in uno spazio che la contiene ma non la sorregge, non la feconda. Ecco perché le situazioni in Ionesco si gonfiano ipertroficamente, crescendo come cellule malate e autoriproducentesi, o si sgonfiano atroficamente, proprio perché nell'assurdo manca l'alimento del senso. Tra ipertrofia e atrofia, permane un concetto amaro e grottesco dell'entropia: ossia di quel quantum di energia che l'uomo come ogni ente ha a disposizione — e che l'uomo borghese moderno prova a gestire al meglio a fuoco lento, con un risparmio che ne dovrebbe garantire la durata, e che però diventa quella dei morti viventi. I personaggi di Ionesco sembrano oscillare tra due polarità entrambe patologiche: quella della fissazione, dell'automatismo, della meccanizzazione o robotizzazione dell'anima, e quella dello scivolamento oltre i paletti educativi, morali, culturali autoimposti, che li espone all'angoscia e ai grotteschi rimedi all'angoscia, il farsene una ragione, la difesa regressiva, l'automatizzazione a fronte dell'ansia, l'immobilità del gatti dinanzi al pericolo.

Si va dalla soddisfazione della pietra invulnerabile alla gioia e al dolore, per difesa, all'ansia dell'animale spaventato quando il non senso si rivela proprio come non senso, senza nessuna copertura, come in un incubo o un sogno non riuscito. Qui la necessità è quella del burattino guidato dagli invisibili fili delle pulsioni caratteriali e dei contesti ambientali, e la libertà è quella gratuita dell'evaso da una prigione oltre i cui cancelli non riconosce più il mondo.

L'arte di Ionesco è paradossale al quadrato, perché la doxa, l'opinione comune, è quella nella quale i personaggi ristagnano, malgrado l'imprevisto del loro fraseggiare asintotico, spezzato, insensato. Al centro del mondo di Ionesco c'è la comunicazione e la non comunicazione. In fondo qui nella comunicazione ciascuno comunica se stesso a dei sordi che comunicano se stessi. Proprio perché si resta entro il linguaggio che si inchioda al significante e non riesce a raggiungere un significato, non ci si comprende, o ci si comprende per scommessa e per caso, come incontrandosi in un bosco per pura fortuna.

Ionesco immette i suoi personaggi in uno spazio claustrofobico come topi dentro un laboratorio, con qualche strategia da scienziato sadico, che vuole mettere alla prova le sue cavie. Al fondo di questa non comunicazione, c'è certo il pessimismo di chi ritiene che la verità o non è accessibile o è celata proprio dentro i capricci del linguaggio. Proprio perché la verità non viene dal trascendente ma è umana, con tutte le debolezze dell'umana, si identifica con il nostro stesso cercarla nel linguaggio, nella parola: una ricerca impari, dove la verità inseguita o seguita male è sempre troppo in là, come il Godot di Beckett, perché i linguaggio stesso è uno spazio che non sa andare oltre se stesso, non sa trascendersi.

Roberto Caracci




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