Opere

Racconti
Poesie

Eventi
Contatti




Flavio Villani
                 Racconti

Piccola favola cinese

Nella notte più gelida dell’anno – era il decennale del regno dell’imperatore Wu-Ti – un uomo bussò alla porta del maestro Lao Tzu, il saggio, quando era appena passata la mezzanotte. Nevicava fitto, e da giorni nessuno si avventurava sulle strade ghiacciate. Perfino i cani randagi preferivano la fame al vento gelido che batteva su ogni cosa racchiudendola, in pochi istanti, in un trasparente velo di ghiaccio, e se ne stavano accoccolati tutto il giorno in qualche angolo riparato in attesa che un primo raggio di sole sbucasse dalla coltre di nuvole grigie e compatte a riscaldare la nera crosta terrestre.
Quando i servi aprirono la porta trovarono l’uomo, avvolto in stracci che a stento gli ricoprivano il corpo ossuto, disteso sui gradini dell’ingresso. Non si muoveva e anche il ritmo della respirazione era appena percepibile. Rimasero a guardare quel mucchio di stracci bagnati senza osare avvicinarsi ma neppure capaci di abbandonarlo al proprio destino. Uno di loro – il più coraggioso, un vecchio che aveva partecipato a diverse campagne militari dell’imperatore, e che, in verità, aveva poco da perdere dato che la sua vita era ormai al termine – decise di svegliare il padrone. Entrò nella stanza da letto avanzando cautamente piegato in avanti, quasi che in quella posizione le frustate potessero fare meno male. Lao, però, da quando gli era morta la moglie aveva il sonno leggero e se ne stava con gli occhi aperti seduto nel letto in attesa che qualcuno gli dicesse cosa stava succedendo.
Il mio letto è così vuoto che mi sveglio in ogni istante…cresce il freddo d’ora in ora, soffia il vento nella notte. Frusciano le tende con un suono, misterioso come il mare…oh, se quelle fossero onde, e se a me ti riportassero!
Il vecchio rimase in silenzio, con il busto piegato in avanti, gli occhi a terra e il cappello stretto fra le mani fino a quando Lao disse: “dimmi vecchio, cos’è tutto questo trambusto?”
Il vecchio rispose: “maestro, mio buon padrone, alla porta c’è un viandante. Ha bussato poco fa e ora se ne sta lì, disteso sui gradini senza parlare. E’ malvestito e sembra in grande sofferenza. Questa è la notte più gelida dell’anno.”
Un viandante in questa nottataccia?”
Lao era molto ricco, ma saggio e di buon cuore, e dopo averci pensato su disse: “va bene, riscaldatelo e rifocillatelo nei quartieri della servitù. Io verrò a vederlo fra poco.”
L’uomo, quasi strisciando il viso a terra, indietreggiò fino alla porta. “Sarà fatto, mio buon padrone.” disse uscendo.
I servi sollevarono il viandante e lo portarono nei loro quartieri dove lo adagiarono su una stuoia accanto a una stufa bollente. Lo liberarono dagli stracci che indossava e una vecchia cieca massaggiò il suo corpo scheletrico con un unguento che lo aiutò a recuperare un po’ di tutto il calore andato perso nella notte gelida. Poi cercarono di sfamarlo con una zuppa bollente. Il viandante ne sorbì poche sorsate e aprì gli occhi.
Le fiammelle delle lampade si piegavano e ondeggiavano nell’aria gelida che s’infiltrava da ogni fessura dei vecchi infissi, proiettando sprazzi oscillanti di luce e ombre in piccole zone, sempre diverse, della stanza.
Quando Lao entrò i servi lasciarono la stanza inchinandosi. Solo la vecchia cieca – l’antica balia – se ne rimase accovacciata in un angolo, senza dire una parola. Il viandante sembrava morto, per com’era immobile sulla stuoia. Il viso era scavato e il naso affilato; la pelle sottile era tesa sugli zigomi e di un pallore cereo, la barba lunga e sporca, i capelli grigi appiccicati al cranio. Lao si avvicinò cautamente al corpo. Poi, quando gli fu vicino, si abbassò cercando di percepirne il respiro, ormai ridotto a un alito sottile. Sta morendo – pensò Lao – guardando quel volto esangue e sconosciuto, ma mentre pensava a quelle parole il viandante sollevò lievemente le palpebre e girò gli occhi verso di lui.
“Chi sei straniero?” fece allora Lao, sorpreso da quel movimento quasi impercettibile,
“come sei arrivato fino qui?”
L’uomo chiuse gli occhi e non rispose.
“Straniero, innalza il tuo spirito. Con le cure dei miei servi starai subito meglio.”
L’uomo aprì nuovamente gli occhi e disse: “mi chiamo Li Po. E’ troppo tardi per la salvezza…”
“Straniero, tu deliri!” disse Lao, ma il viandante non l’ascoltava.
“Ero un poeta e ho cercato…”
“Di che parli? Cosa cercasti?!” disse Lao.
“La verità…”
“Cosa vuoi dire?”, ma lo straniero non aggiunse altre parole.
Lao era l’uomo più saggio dell’Impero: conosceva tutte le leggi e ognuna delle mille e mille lingua che vi si parlano, degli astri bene comprendeva gli astrusi moti, e la sua parola era leggera come la piuma di una colomba quando declamava i suoi meravigliosi versi, nel giardino, circondato dai familiari e dagli amici.
“I saggi conoscono ogni verità.” disse. “Il pensiero differenzia gli uomini dagli animali. Di cos’altro c’è bisogno?”
Il viandante socchiuse gli occhi. “I confini degli imperi li stabiliscono gli uomini ma il cielo è infinito.” disse.
Lao all’improvviso desiderò che lo straniero non morisse. Aveva la sensazione che quello sconosciuto, lacero e macilento, dovesse ancora rivelargli qualcosa d’importante. Tremante avvicinò l’orecchio alla sua bocca, sforzandosi di percepire ogni minimo bisbiglio prodotto da quelle labbra screpolate: “la fonte di ogni verità…”
“Parla straniero…dimmi!!” lo incalzò Lao.
“La mia borsa…”
“Cosa?!” gridò Lao voltandosi di scatto verso la borsa di tela tutta strappata.
“Non ce l’ho fatta, quarant’anni sono passati…ho lasciato tutto…tutto…tutto…” disse il viandante disperato, e le lacrime iniziarono a misurargli le guance scarne.
Lao aveva smesso di ascoltarlo e come un forsennato si avventò sulla borsa. La aprì strappando la tela lacera. Ma non appena l’ebbe fatto si arrestò come fulminato. Davanti ai suoi occhi, sul pavimento, c’era una semplice scatola di legno grezzo.
“Ho centinaia di meravigliose scatole laccate e finemente decorate d’oro, traboccanti di oggetti preziosissimi!” gridò Lao deluso, scuotendo lo straniero con violenza. Ma questi, ormai, non poteva più udirlo.
“Questa certo non mi serve più di tutte le altre…” disse.
Lao allora prese la scatola fra le mani e senza indugiare la aprì. Dal suo interno ne estrasse un’altra, identica alla precedente, che ugualmente aprì…………e un’altra……………………………
………………………………e un’altra………………………………………………..……………...
………………………………...........................e un’altra ancora………………………..……………
………………ognuna solo impercettibilmente più piccola della precedente……....…………………
Continuò ad aprire quelle scatole, una dopo l’altra, senza tregua. Sembravano non dover finire mai, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno Lao perse la propria pace e ogni interesse per le cose che amava. Abbandonò gli studi delle leggi e delle infinite lingue dell’Impero. Non scrisse né mai più recitò alcuna poesia. Delegò i commerci ai suoi parenti che poco a poco lo derubarono di ogni suo avere. Con l’eccezione della vecchia cieca, i servi, uno ad uno, lo abbandonarono tutti, e la casa da fastosa che era si trasformò in una catapecchia priva di ogni suppellettile. Allora Lao lasciò anche quella, e mentre si allontanava sentì alle sue spalle la voce della sua vecchia balia che lo scongiurava di non abbandonarla. “Non c’è verità che tu non possa trovare qui, insieme a me!” gli gridò la donna quando ormai la casa era ridotta a un piccolo punto sull’orizzonte contro l’insanguinato cielo del tramonto. Ma lui non l’ascoltò e iniziò a girovagare per il paese senza meta, mendicando qua e là un po’ di riso, nella speranza d’incontrare chi potesse rivelargli il mistero della scatola di legno. Scalò montagne coperte dalle nevi eterne; guadò torrenti d’acqua trasparente e fiumi intorbidati dalle sabbie dei deserti del nord, sollevate in accecanti turbini dai gelidi venti invernali. Attraversò intricate foreste dove il caldo era opprimente e scimmie, simili a uomini, lo fissavano incredule dall’alto di alberi secolari. Percorse le interminabili distese di nude rocce, spaccate, color dell’ocra, del deserto del Gobi. Infinite volte sfuggì alla morte per mano dei predoni o per misteriose malattie. Passarono così, come battito d’ala, quarant’anni, e l’imperatore morì, e un altro imperatore e un altro ancora si sedettero sul trono d’oro del celeste Impero nella Città Proibita, e ogni persona a lui conosciuta morì e altre vennero che non conosceva, ma Lao non interruppe mai la sua ricerca. In ciascuno di quei luoghi incontrò i saggi più famosi, sciamani e veggenti, uomini potenti, chiromanti e condottieri valorosissimi a cui poneva sempre e solo quell’unica domanda. Le risposte che quegli uomini gli diedero furono infinite, quasi sempre labili come sogni, in altri casi argutamente enunciate, ma nessuno, in verità, fu in grado di dire a Lao quella che dolorosamente attendeva.
Una notte – era la notte più fredda dell’anno e Tsao Chih era imperatore da pochi giorni – Lao, dopo tanto girovagare, si fermò sui gradini di una bella dimora illuminata da grandi lanterne. Il vento soffiava e la neve mulinava senza tregua. Le fiammelle s’inclinavano sotto le folate gelide e sembrava dovessero spegnersi da un momento all’altro. I servitori della casa aprirono la porta e lo guardarono incerti sul da farsi. Poi decisero di sollevarlo e portarlo all’interno, al caldo. Lo adagiarono su una stuoia e lo liberarono dai suoi stracci. Una donna lo massaggiò dolcemente con un unguento che sprigionò dal suo corpo vecchio ed emaciato quel poco calore che ancora conteneva. Lao rimase ad occhi chiusi, pervaso da una sensazione di benessere che non provava da anni, dimenticandosi della scatola di legno nella sacca di tela lacera che qualcuno aveva appoggiato a terra in un angolo della stanza.
Una voce sottile lo chiamò mentre stava per addormentarsi. “Straniero! straniero! come ti chiami?” disse la vocina. Lao aprì gli occhi. A meno di un palmo dal viso un bambino di cinque o sei anni lo fissava con grandi occhi scuri e senza fondo. Sorrideva. Lao non ebbe la forza di parlargli. Si limitò ad indicargli con un dito la borsa lacera. Il bambino si alzò, con un balzo l’afferrò e gliela portò vicino. Questi a sua volta gli sorrise. Il bambino lo guardò per un attimo tenendo la borsa sospesa a mezz’aria, e subito comprese: ne sciolse i lacci che la chiudevano e dal fondo estrasse una piccola scatola di legno grezzo e disadorna. La fissò con i suoi grandi occhi neri, infiniti. Poi si girò verso Lao che gli sorrise ancora. Il bambino allora aprì la scatola e ci guardò dentro. Rimase così, immobile e con la scatola aperta davanti al naso, per istanti che a Lao sembrarono non dover terminare mai. Improvvisamente il silenzio fu interrotto dalla trillante risata del bimbo. Il viso di Lao si distorse in una smorfia. Con le ultime forze si sollevò sui gomiti e guardò il bambino che, timoroso, smise di ridere e abbassò gli occhi a terra.
Lao era stravolto, “cosa?!...cosa?!” riuscì solo a dire.
Il bambino allora sollevò lo sguardo e riprese a ridere, “una formichina! guarda!” disse “guarda!” quindi tirò la piccola mano fuori dalla scatola con la formica che ci correva sopra, e s’incantò a guardarla. Lao fissò incredulo la minuscola, nera formica che correva sulla candida pelle della mano del bimbo, poi si coprì il volto raggrinzito con le mani e iniziò a piangere…………………………...
…………………………………………………………………………………………………………

Da allora – passati dieci anni del regno dell’imperatore Tsao Chih – Lao Tzu, il saggio, vive fra gli alberi dell’antico giardino, e attende che i ciliegi fioriscano bianchi mentre lenta nell’aria ancora cade la neve.






Torna all'elenco degli » autori.

 

Contatti   |   Altri Autori   |   La Compagnia del the   |   Eventi   |   Link Amici
Compagnia del the, progetto culturale diretto da Raffaele d'Isa. Email »