Nella notte
più gelida dell’anno – era il decennale del regno
dell’imperatore Wu-Ti – un uomo bussò alla porta
del maestro Lao Tzu, il saggio, quando era appena passata la
mezzanotte. Nevicava fitto, e da giorni nessuno si avventurava
sulle strade ghiacciate. Perfino i cani randagi preferivano la
fame al vento gelido che batteva su ogni cosa racchiudendola,
in pochi istanti, in un trasparente velo di ghiaccio, e se ne
stavano accoccolati tutto il giorno in qualche angolo riparato
in attesa che un primo raggio di sole sbucasse dalla coltre di
nuvole grigie e compatte a riscaldare la nera crosta
terrestre.
Quando i servi aprirono la porta trovarono l’uomo,
avvolto in stracci che a stento gli ricoprivano il corpo
ossuto, disteso sui gradini dell’ingresso. Non si muoveva
e anche il ritmo della respirazione era appena percepibile.
Rimasero a guardare quel mucchio di stracci bagnati senza osare
avvicinarsi ma neppure capaci di abbandonarlo al proprio
destino. Uno di loro – il più coraggioso, un vecchio che
aveva partecipato a diverse campagne militari
dell’imperatore, e che, in verità, aveva poco da perdere
dato che la sua vita era ormai al termine – decise di
svegliare il padrone. Entrò nella stanza da letto avanzando
cautamente piegato in avanti, quasi che in quella posizione le
frustate potessero fare meno male. Lao, però, da quando gli era
morta la moglie aveva il sonno leggero e se ne stava con gli
occhi aperti seduto nel letto in attesa che qualcuno gli
dicesse cosa stava succedendo.
Il mio letto è così vuoto che mi sveglio in ogni
istante…cresce il freddo d’ora in ora, soffia il
vento nella notte. Frusciano le tende con un suono, misterioso
come il mare…oh, se quelle fossero onde, e se a me ti
riportassero!
Il vecchio rimase in silenzio, con il busto piegato in avanti,
gli occhi a terra e il cappello stretto fra le mani fino a
quando Lao disse: “dimmi vecchio, cos’è tutto
questo trambusto?”
Il vecchio rispose: “maestro, mio buon padrone, alla
porta c’è un viandante. Ha bussato poco fa e ora se ne
sta lì, disteso sui gradini senza parlare. E’ malvestito
e sembra in grande sofferenza. Questa è la notte più gelida
dell’anno.”
Un viandante in questa nottataccia?”
Lao era molto ricco, ma saggio e di buon cuore, e dopo averci
pensato su disse: “va bene, riscaldatelo e rifocillatelo
nei quartieri della servitù. Io verrò a vederlo fra
poco.”
L’uomo, quasi strisciando il viso a terra, indietreggiò
fino alla porta. “Sarà fatto, mio buon padrone.”
disse uscendo.
I servi sollevarono il viandante e lo portarono nei loro
quartieri dove lo adagiarono su una stuoia accanto a una stufa
bollente. Lo liberarono dagli stracci che indossava e una
vecchia cieca massaggiò il suo corpo scheletrico con un
unguento che lo aiutò a recuperare un po’ di tutto il
calore andato perso nella notte gelida. Poi cercarono di
sfamarlo con una zuppa bollente. Il viandante ne sorbì poche
sorsate e aprì gli occhi.
Le fiammelle delle lampade si piegavano e ondeggiavano
nell’aria gelida che s’infiltrava da ogni fessura
dei vecchi infissi, proiettando sprazzi oscillanti di luce e
ombre in piccole zone, sempre diverse, della stanza.
Quando Lao entrò i servi lasciarono la stanza inchinandosi.
Solo la vecchia cieca – l’antica balia – se
ne rimase accovacciata in un angolo, senza dire una parola. Il
viandante sembrava morto, per com’era immobile sulla
stuoia. Il viso era scavato e il naso affilato; la pelle
sottile era tesa sugli zigomi e di un pallore cereo, la barba
lunga e sporca, i capelli grigi appiccicati al cranio. Lao si
avvicinò cautamente al corpo. Poi, quando gli fu vicino, si
abbassò cercando di percepirne il respiro, ormai ridotto a un
alito sottile. Sta morendo – pensò Lao – guardando
quel volto esangue e sconosciuto, ma mentre pensava a quelle
parole il viandante sollevò lievemente le palpebre e girò gli
occhi verso di lui.
“Chi sei straniero?” fece allora Lao, sorpreso da
quel movimento quasi impercettibile,
“come sei arrivato fino qui?”
L’uomo chiuse gli occhi e non rispose.
“Straniero, innalza il tuo spirito. Con le cure dei miei
servi starai subito meglio.”
L’uomo aprì nuovamente gli occhi e disse: “mi
chiamo Li Po. E’ troppo tardi per la
salvezza…”
“Straniero, tu deliri!” disse Lao, ma il viandante
non l’ascoltava.
“Ero un poeta e ho cercato…”
“Di che parli? Cosa cercasti?!” disse Lao.
“La verità…”
“Cosa vuoi dire?”, ma lo straniero non aggiunse
altre parole.
Lao era l’uomo più saggio dell’Impero: conosceva
tutte le leggi e ognuna delle mille e mille lingua che vi si
parlano, degli astri bene comprendeva gli astrusi moti, e la
sua parola era leggera come la piuma di una colomba quando
declamava i suoi meravigliosi versi, nel giardino, circondato
dai familiari e dagli amici.
“I saggi conoscono ogni verità.” disse. “Il
pensiero differenzia gli uomini dagli animali. Di
cos’altro c’è bisogno?”
Il viandante socchiuse gli occhi. “I confini degli imperi
li stabiliscono gli uomini ma il cielo è infinito.”
disse.
Lao all’improvviso desiderò che lo straniero non morisse.
Aveva la sensazione che quello sconosciuto, lacero e macilento,
dovesse ancora rivelargli qualcosa d’importante. Tremante
avvicinò l’orecchio alla sua bocca, sforzandosi di
percepire ogni minimo bisbiglio prodotto da quelle labbra
screpolate: “la fonte di ogni verità…”
“Parla straniero…dimmi!!” lo incalzò Lao.
“La mia borsa…”
“Cosa?!” gridò Lao voltandosi di scatto verso la
borsa di tela tutta strappata.
“Non ce l’ho fatta, quarant’anni sono
passati…ho lasciato
tutto…tutto…tutto…” disse il
viandante disperato, e le lacrime iniziarono a misurargli le
guance scarne.
Lao aveva smesso di ascoltarlo e come un forsennato si avventò
sulla borsa. La aprì strappando la tela lacera. Ma non appena
l’ebbe fatto si arrestò come fulminato. Davanti ai suoi
occhi, sul pavimento, c’era una semplice scatola di legno
grezzo.
“Ho centinaia di meravigliose scatole laccate e finemente
decorate d’oro, traboccanti di oggetti
preziosissimi!” gridò Lao deluso, scuotendo lo straniero
con violenza. Ma questi, ormai, non poteva più udirlo.
“Questa certo non mi serve più di tutte le
altre…” disse.
Lao allora prese la scatola fra le mani e senza indugiare la
aprì. Dal suo interno ne estrasse un’altra, identica alla
precedente, che ugualmente
aprì…………e
un’altra……………………………
………………………………e
un’altra………………………………………………..……………...
………………………………...........................e
un’altra
ancora………………………..……………
………………ognuna solo
impercettibilmente più piccola della
precedente……....…………………
Continuò ad aprire quelle scatole, una dopo l’altra,
senza tregua. Sembravano non dover finire mai, giorno dopo
giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo
anno Lao perse la propria pace e ogni interesse per le cose che
amava. Abbandonò gli studi delle leggi e delle infinite lingue
dell’Impero. Non scrisse né mai più recitò alcuna poesia.
Delegò i commerci ai suoi parenti che poco a poco lo derubarono
di ogni suo avere. Con l’eccezione della vecchia cieca, i
servi, uno ad uno, lo abbandonarono tutti, e la casa da fastosa
che era si trasformò in una catapecchia priva di ogni
suppellettile. Allora Lao lasciò anche quella, e mentre si
allontanava sentì alle sue spalle la voce della sua vecchia
balia che lo scongiurava di non abbandonarla. “Non
c’è verità che tu non possa trovare qui, insieme a
me!” gli gridò la donna quando ormai la casa era ridotta
a un piccolo punto sull’orizzonte contro
l’insanguinato cielo del tramonto. Ma lui non
l’ascoltò e iniziò a girovagare per il paese senza meta,
mendicando qua e là un po’ di riso, nella speranza
d’incontrare chi potesse rivelargli il mistero della
scatola di legno. Scalò montagne coperte dalle nevi eterne;
guadò torrenti d’acqua trasparente e fiumi intorbidati
dalle sabbie dei deserti del nord, sollevate in accecanti
turbini dai gelidi venti invernali. Attraversò intricate
foreste dove il caldo era opprimente e scimmie, simili a
uomini, lo fissavano incredule dall’alto di alberi
secolari. Percorse le interminabili distese di nude rocce,
spaccate, color dell’ocra, del deserto del Gobi. Infinite
volte sfuggì alla morte per mano dei predoni o per misteriose
malattie. Passarono così, come battito d’ala,
quarant’anni, e l’imperatore morì, e un altro
imperatore e un altro ancora si sedettero sul trono d’oro
del celeste Impero nella Città Proibita, e ogni persona a lui
conosciuta morì e altre vennero che non conosceva, ma Lao non
interruppe mai la sua ricerca. In ciascuno di quei luoghi
incontrò i saggi più famosi, sciamani e veggenti, uomini
potenti, chiromanti e condottieri valorosissimi a cui poneva
sempre e solo quell’unica domanda. Le risposte che quegli
uomini gli diedero furono infinite, quasi sempre labili come
sogni, in altri casi argutamente enunciate, ma nessuno, in
verità, fu in grado di dire a Lao quella che dolorosamente
attendeva.
Una notte – era la notte più fredda dell’anno e
Tsao Chih era imperatore da pochi giorni – Lao, dopo
tanto girovagare, si fermò sui gradini di una bella dimora
illuminata da grandi lanterne. Il vento soffiava e la neve
mulinava senza tregua. Le fiammelle s’inclinavano sotto
le folate gelide e sembrava dovessero spegnersi da un momento
all’altro. I servitori della casa aprirono la porta e lo
guardarono incerti sul da farsi. Poi decisero di sollevarlo e
portarlo all’interno, al caldo. Lo adagiarono su una
stuoia e lo liberarono dai suoi stracci. Una donna lo massaggiò
dolcemente con un unguento che sprigionò dal suo corpo vecchio
ed emaciato quel poco calore che ancora conteneva. Lao rimase
ad occhi chiusi, pervaso da una sensazione di benessere che non
provava da anni, dimenticandosi della scatola di legno nella
sacca di tela lacera che qualcuno aveva appoggiato a terra in
un angolo della stanza.
Una voce sottile lo chiamò mentre stava per addormentarsi.
“Straniero! straniero! come ti chiami?” disse la
vocina. Lao aprì gli occhi. A meno di un palmo dal viso un
bambino di cinque o sei anni lo fissava con grandi occhi scuri
e senza fondo. Sorrideva. Lao non ebbe la forza di parlargli.
Si limitò ad indicargli con un dito la borsa lacera. Il bambino
si alzò, con un balzo l’afferrò e gliela portò vicino.
Questi a sua volta gli sorrise. Il bambino lo guardò per un
attimo tenendo la borsa sospesa a mezz’aria, e subito
comprese: ne sciolse i lacci che la chiudevano e dal fondo
estrasse una piccola scatola di legno grezzo e disadorna. La
fissò con i suoi grandi occhi neri, infiniti. Poi si girò verso
Lao che gli sorrise ancora. Il bambino allora aprì la scatola e
ci guardò dentro. Rimase così, immobile e con la scatola aperta
davanti al naso, per istanti che a Lao sembrarono non dover
terminare mai. Improvvisamente il silenzio fu interrotto dalla
trillante risata del bimbo. Il viso di Lao si distorse in una
smorfia. Con le ultime forze si sollevò sui gomiti e guardò il
bambino che, timoroso, smise di ridere e abbassò gli occhi a
terra.
Lao era stravolto, “cosa?!...cosa?!” riuscì solo a
dire.
Il bambino allora sollevò lo sguardo e riprese a ridere,
“una formichina! guarda!” disse
“guarda!” quindi tirò la piccola mano fuori dalla
scatola con la formica che ci correva sopra, e s’incantò
a guardarla. Lao fissò incredulo la minuscola, nera formica che
correva sulla candida pelle della mano del bimbo, poi si coprì
il volto raggrinzito con le mani e iniziò a
piangere…………………………...
………………………………………………………………………………………………………… Da allora – passati dieci anni
del regno dell’imperatore Tsao Chih – Lao Tzu, il
saggio, vive fra gli alberi dell’antico giardino, e
attende che i ciliegi fioriscano bianchi mentre lenta
nell’aria ancora cade la neve.